Questo articolo vuole
essere una sorta di analisi quasi escatologica dell'universo
capitalista, un tentativo ambizioso e destinato al successo di
smantellare le fondamenta teoriche della proprietà privata dei mezzi
di produzione, una presa d'atto necessaria e necessariamente
precedente la proposta di un'alternativa.
A monte di una doverosa
distinzione tra i bisogni sobri e quelli indotti, possiamo dire che
in una comunità il bisogno di produrre un determinato bene o di
erogare un certo servizio nasce dalla necessità che quella comunità
ha di consumare il prodotto o usufruire del servizio.
La logica suggerisce che
una comunità matura e autocosciente potrebbe a questo punto
organizzarsi da sé per produrre ed erogare quanto necessario
soddisfacendo ad un tempo i propri bisogni di consumo, occupazionali,
urbanistici ed ecologici1.
Ciò che se ne deduce è
che non è assolutamente necessario che i rapporti di produzione
prevedano una proprietà dei mezzi e una condizione subalterna dei
salariati.
In questo contesto il
singolo imprenditore capitalista è una figura anomala, frutto del
basso livello di coscienza della comunità che, incapace di
esprimere da sé i propri bisogni e di soddisfarli, permette questa
strana intrusione.
L'imprenditore quindi
intercetta i bisogni comunitari e ne organizza il soddisfacimento
autonomamente. Se la cosa non avesse prezzo, ossia se l'imprenditore
fosse un "illuminato" disposto, subito dopo aver avuto
l'idea, a rimettersi in gioco attraverso rapporti di produzione
comunitari, andrebbe anche bene.
Il problema è che questa
figura assolutamente non necessaria avoca a sé un qualcosa a sua
volta assolutamente non necessario: il profitto. L'esistenza di
questa variabile viene considerata naturale nel contesto economico
attuale e non se scorge l'assurdità fino a che non si prendono in
esame appunto i prodromi della sua nascita.
Nel momento in cui si
accetta l'interposizione dell'imprenditore tra il bisogno di
produzione e la produzione stessa, i lavoratori non saranno più
liberi ma sottoposti, prima che a un padrone, a una sua esigenza a
questo punto fisiologica, ossia quella di ricavare un profitto,
"equivalente"2
rispetto al salario del lavoratore per guadagnare.
In questo momento nascono
due contraddizioni, non percepite come tali da un sistema che può
già definirsi capitalista. La prima, e più ovvia, è che
l'imprenditore è portato a massimizzare il proprio profitto e per
farlo è disposto anche a sacrificare il salario dei lavoratori,
riducendolo a ogni occasione e quindi aumentando la forbice sociale
con gli stessi, e a produrre senza quel rispetto dei criteri
ecologici ed etici che la comunità terrebbe in maggior
considerazione. La seconda è che i lavoratori non dovranno più
produrre solo per generare i beni di cui la loro comunità necessita
e indirettamente il proprio giusto salario, ma dovranno lavorare
di più per produrre anche il profitto dell'imprenditore capitalista,
la cui generazione non era altrimenti necessaria: è in questo
preciso momento che nasce il plusvalore individuato
scientificamente da Karl Marx in un'analisi della quale rendiamo
onore al Barbuto di Treviri.
L'imprenditore
capitalista svolge dunque una funzione non necessaria, fagocita
risorse e non da nulla in cambio. In biologia questo tipo di figura
viene detto parassita, ed è in questa prospettiva che
dobbiamo inquadrarlo socialmente. Solo il parassitismo capitalista,
infatti, ha potuto nei decenni sottrarre artificiosamente risorse
alla società sino a ridurla al collasso attuale in cui da nessuna
parte, nonostante le potenzialità produttive invariate, sembra non
esserci più ricchezza.
L'assurdità che subentra
a questo punto assume contorni che sarebbero anche comici se non si
rivelassero in realtà drammatici nei casi di chiusura aziendale.
L'attività produttiva
infatti, il cui impulso all'esistenza, ricordiamolo, nasce e persiste
dalla comunità che necessita di beni e servizi, viene legata a
doppio filo al singolo padrone. Per questa ragione nel momento in cui
il padrone decide di chiudere l'attività o delocalizzarla, a meno di
un atto filantropico sino ad oggi ben poco diffuso, la produzione
cessa e i lavoratori si ritrovano senza un impiego. L'assurdità di
questa situazione, ahimé tutt'altro che rara, sta nel fatto che
anche in caso di chiusura di un'azienda, in realtà il tessuto
economico nel suo complesso mantiene invariata la necessità di quel
prodotto che veniva realizzato3.
Per cui, nonostante la comunità abbia bisogno del prodotto e
nonostante lavoratori e mezzi siano potenzialmente pronti a produrlo,
il meccansimo si inceppa perché l'imprenditore, ossia la parte meno
importante, si è fatta da parte.
Come dire che una casa
può crollare non perché siano state distrutte le sue fondamente, ma
una tegola del tetto.
A questo punto una
proposta organica sulla riformulazione totale dei nostri schemi
economici occuperebbe lo spazio di un saggio (non lunghissimo avendo
già stroncato senza appello i rapporti capitalistici), ma la nostra
azione, senza la quale ogni esposizione teorica sarebbe puro
autoerotismo intellettuale, deve vertere con estrema urgenza
sull'attualità immediata.
Sempre più spesso
aziende di ogni dimensione chiudono, vuoi per la codarda fuga del
proprietario che vuole iniziare a vampirizzare la classe lavoratrice
di altre regioni del mondo, vuoi per la sua incapacità a competere
perché altri l'hanno fatto prima di lui.
Ecco quindi che è
necessario organizzarsi a livello politico (che non significa
naturalmente partitico), sindacale e sociale affinché sia possibile
per le aziende che vivono questi momenti salvaguardare tutto
l'impianto produttivo affinché macchinari, mezzi e competenze non
siano cannibalizzati a favore delle sedi delocalizzate. I lavoratori
devono poter continuare l'attività conservando il portafoglio
aziendale grazie a un piano industriale da realizzarsi verosimilmente
con la consulenza dei sindacati (gli unici probabilmente a saper
fornire queste competenze) e un finanziamento da ricercarsi o nel
pubblico o nella società stessa attraverso forme di azionariato
sociale, anche solo temporaneo, per poi consentire la formazione
dell'unica forma di produzione etica e sostenibile, quella
cooperativa e coordinata con la comunità.
1Urbanistici
ed ecologici in quanto una comunità che installasse sul proprio
territorio un'attività produttiva con la quale convivere a lungo
(in quanto ospiterebbe lavoratori della comunità stessa) per
necessità di autoconsumo, e non di speculazione, darebbe totale
attenzione al rispetto dell'ambiente e della vivibilità
urbanistica.
2Le
virgolette sono d'obbligo poiché, al di là di un recente e
retorico piagnisteo di imprenditori che si dicono in crisi dopo aver
succhiato il sangue per anni ai lavoratori, quantitativamente è ben
raro che i profitti dell'imprenditore equivalgano il salario dei
dipendenti
3L'esempio
più illuminante è proprio quello delle delocalizzazione, un caso
in cui la produzione industriale non viene cessata ma spostata,
questo sta ad indicare che la necessità di produrre, di per sé, è
invariata, ma il capitalismo impone che la produzione avvenga in
condizioni più convenienti (per il capitalista) ossia laddove il
profitto può essere massimizzato
2 commenti:
Due osservazioni ed una domanda.
L'osservazione riguarda anche la professionalità impiegata nelle richieste datoriali, spesso, per quanto dotati di spiccata capacità, con la chiusura dell'azienda, la stessa finisce nel nulla, evidenziando di come il tempo impiegato ad imparare lavorazioni e regole, sia infruttuoso e finito a sè stesso (utile solo al capitalista).
Seconda osservazione, ho la presunzione che questo meccanismo di velocità per abbassare il prezzo a discapito anche della sicurezza, sia anche generatore di una o più situazioni di illegalità, esempio classico, il consegnare merce nel mino tempo possibile, quando il codice della strada mette in evidenza dei limiti ben precisi, altro esempio quello dei camionisti "costretti" a "falsificare" la registrazione sul disco di viaggio per poter effettuare consegne rapide e numerose, con condizioni di sicurezza discutibili, sia per il guidatore, che per gli utenti della strada.
La domanda, la sicurezza sul lavoro, rientra in un discorso dell'etica a cui accennavi all'inizio del blog?
Innanzitutto condivido pienamente le tue osservazioni.
Sulla prima la cosa raggiunge livelli drammatici in quanto chi ha competenze elevate, sapendo a monte che il proprio posto è strutturalmente ricattabile, è disponibile a farsi sfruttare con bassi livelli retributivi come fosse manovalanza generica. Vi sono esempi, documentati anche in un libro di Renato Curcio "Mal di lavoro" in cui emerge che spesso sono propri i responsabili, capireparto e capiturno ad essere maggiormente spremuti.
La seconda osservazione la diamo addirittura per scontata, oggi la sicurezza è vissuta come un costo per l'impresa e non potrebbe essere diversamente nel momento in cui finalità della stessa è il profitto per pochi.
Venendo alla tua domanda non ho ben presente il discorso sull'etica fatto all'inizio del blog(sono anche andato a rileggermi il primo post) ma sicuramente si tratta di un argomento fondamentale nel complessivo discorso rivoluzionario, sia declinandolo in senso lavorativo che generale.
Il mondo attuale manca totalmente di etica, di conseguenza non vi è etica nel lavoro e nel capitalismo, che ne incarna la totale assenza (è un po' un ossimoro, lo so).
Il recupero di un etica del lavoro di conseguenza deve essere ai primi punti di un'agenda rivoluzionaria.
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