A volte viene la
tentazione di camminare contemporaneamente in due sentieri. L'uno
massimalista, che guarda incondizionatamente alla rivoluzione come al
solo ed unico obiettivo sensato e a un modo di conseguirlo, appunto
rivoluzionario, ovvero un cambiamento radicale e repentino dello
status quo precedente. L'altro minimalista, teso sì a un
cambiameto rivoluzionario, ma da realizzarsi attraverso piccoli
cambiamenti che, senza alcuna concessione al riformismo
intrasistemico, siano davvero capaci di indurre nella società
effetti sostanziali.
Una delle cose cui stavo
pensando, che mai potrebbe essere inclusa in un manifesto
rivoluzionario, ma che potrebbe starci benissimo negli ipotetici 100
giorni di un nuovo corso, è il totale reindirizzamento degli
sgravi fiscali alle aziende nel campo non solo degli investimenti ma
delle spese ordinarie.
Una pratica accettata
ormai in modo conformista nel regime economico attuale è quello
della deducibilità degli interessi passivi dovuti alle banche a
seguito di prestiti contratti con le stesse dalle aziende. Non
sapendo se anche nel resto d'Europa o del mondo funzioni allo stesso
modo, posso immaginare che questo sistema dev'essere sembrato a lungo
l'ideale per la piccola e media impresa italiana. Questa infatti, di
dimensioni limitate alla propria genesi e priva di sue forze
finanziarie, si è sempre basata sui finanziamenti bancari sia per
gli investimenti di espansione che per il pagamento di spese
ordinarie (es, stipendi, fornitori). Le piccole e medie aziende hanno
potuto per generazioni spendere denaro non proprio (in prima battuta)
usufruendo dei vantaggi fiscali sulla deducibilità degli interessi,
andando poi a pagare gli stessi alle banche dopo aver incassato il
fatturato, quando non fosse stato possibile rimborsare tutto il
capitale. In questo modo la galassia delle partite iva, degli
artigiani, dei piccoli impresari ha potuto per anni, decenni,
sottrarre al rischio d'impresa i guadagni netti che generalmente,
anzichè essere usati per potenziare l'azienda, consolidarla, o
smaltire strutturalmente i debiti con le banche sino a non averne più
bisogno, finivano direttamente nelle tasche private del padrone senza
che alcuna fetta adeguata venisse collocata in un capitale sociale
degno di questo nome. Tale pratica è stata ancora più esasperata in
Italia dal ricorso praticamente ordinario al lavoro in nero che ha
consentito non a tutti, ma a molti piccoli e medi imprenditori di
metter via enormi fortune o costruirsi un patrimonio di beni
assolutamente lussuoso proprio perché quello era il modo più
conveniente di impiegare i denari guadagnati senza alcuna organica
prospettiva di impresa (in questo senso si intravede forse anche un
grave deficit imprenditoriale del nostro paese).
Contemporaneamente le
banche, avvantaggiate dalla legislazione vigente nel concedere
prestiti che diventavano motivo di sgravi fiscali, hanno potuto fare
a loro volta fortuna senza svolgere alcun compito costruttivo per
l'azienda, per i suoi dipendenti o lo stato in generale.
Semplicemente, sempre avvalendosi di una legislazione favorevole, gli
istituti hanno prestato alle imprese il denaro dei propri correntisti
(magari dipendenti, clienti o fornitori delle aziende stesse, nulla
di più facile considerando l'aggregato della varie banche...), o più
probabilmente denaro che nemmeno avevano grazie al meccanismo del
moltiplicatore, facendo fortuna senza correre particolari rischi e
vedendosi rientrare tutto il denaro prestato con tanto di interessi.
Qualcuno potrebbe
aggiungere che questo circolo è stato alimentato anche dalla cattiva
consuetudine di casa nostra, spesso difficile da correggere anche per
vie legali, di lavorare tramite pagamenti a 60, 90, 120 giorni o
anche più, cosa che, unita appunto alla tendenza degli impresari a
non rischiare mai i propri soldi, ha generato con l'andar del tempo
una cattiva circolazione del denaro e dei pagamenti, inceppando un
meccanismo che andave invece oleato.
Questo ha creato in
Italia imprese strutturalmente deboli che hanno fatto risultati solo
in epoca di vacche grasse mentre oggi, con la crisi imperante, si
trovano assolutamente impreparate e privi di mezzi per reagire, il
tutto aggravato dalla tendenza frequente negli ultimi anni a
ricorrere al leasing e al comodato d'uso, cosa che ci ha regalato in
momenti drammatici aziende solide sino a poco tempo prima che non
possedevano assolutamente nulla in un momento di crisi, nemmeno quei
beni (muri e macchinari) sufficienti a liquidare i creditori.
E allora, senza
costringerci a fare la rivoluzione proprio in questa settimana, viene
da proporre una soluzione tanto semplice quanto scomoda, scomodità
che si evince tanto di più dalle difficoltà di copertura e
attuazione (quando un provvedimento risulta troppo facile, stiamone
certi, è perché non da fastidio a nessuno). In pratica abolire
totalmente gli sgravi fiscali sugli interessi passivi contratti dalle
imprese e dirottarli sulle spese fatte direttamente coi capitali
dell'azienda. In realtà esperimenti di questo tipo si sono
avuti, pur senza la revoca della deducibilità degli interessi,
concedendo sgravi alle aziende in occasione di diverse leggi
finanziarie, per esempio sugli investimenti di espansione, per
miglioramenti in chiave ambientale e via discorrendo, ma mai nulla di
organico e strutturale.
L'idea ora diventa invece
quella di escludere completamente le banche e i loro finanziamenti
dal circolo del denaro tra imprese, dipendenti, clienti, fornitori,
etc, per far sì che siano solo questi soggetti a far muovere i
denari. In questo modo si vuole incoraggiare l'azienda a costruirsi
un capitale proprio interamente versato e realmente spendibile senza
contare sul denaro di terzi e allo stesso tempo impedire che le
banche, riscuotendo capitale e interessi, sottraggano ricchezza dal
tessuto economico reale.
Domanda, e se un'impresa
fosse in buona fede interessata o costretta dalle circostanze a un
investimento che supera le proprie reali capacità di
autofinanziamento anche dopo anni di condotta esemplare? Dovrebbe
ricorrere comunque a un prestito bancario senza poter poi dedurre gli
interessi sullo stesso trovandosi ora veramente svantaggiata? Nulla
di tutto questo, perché la proposta è di insieme, ed investimenti
straordinari di questa natura non dovranno più essere finanziati
dalle banche ma da fondi pubblici costituiti dallo stato o dalle
regioni, creati facendo un buon uso del prelievo fiscale attuale, e
senza tassi di interessi, concessi ovviamente in modo rigoroso e
senza la faciloneria italiana degli aiuti a pioggia e a fondo perduto
al furbo di turno.
Lì'obiettivo strategico
è evidentemente, oltre al consolidamento dell'azienda senza che
questa debba sopravvivere solo grazie a una balia, l'esclusione
organica delle banche dal tessuto economico.
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