Raccolgo e di seguito rielaboro sottoforma di testo alcune prezione osservazioni di Lorenzo Merlo a proposito dell'articolo apparso su questo blog, Il Capitalismo, una malattia, ringraziando Lorenzo per i suoi spunti sempre impegnati e impegnativi.
Per capire a quale punto del testo si riferiscono le sue osservazioni riposto integralmente il post originale sotto, così da mantenere in risalto quanto scrive.
1 La giustizia è un’idea razionale e anche relativa a chi la esprime. L’ingiustizia, le differenze sono fisiologiche di ogni ambito. Fosse anche come eccezione che conferma la regola. Lottare per rispetto della nostra convinzione è legittima azione identitaria ma la cosa non le azzererà. La perfezione è solo nel mondo delle idee. Sentimenti diversi tenderanno a prevaricarsi sempre.
2 Il concetto di giustizia non penso possa essere univoco.
3 Il modello non sfugge ad essere anche il risultato di ciò che razionalmente consideriamo possibile. Se risultato è, esso rappresenta le forze, le volontà che hanno giocato la partita, incluso la corruzione dell’arbitro.
4 A mio parere non è la religione ma l’interpretazione della religione che può essere fondamentalista. L’idea fondamentalista ha una sua genesi, esigenza. Essa rappresenta alcune identità che in essa vedono realizzare se stesse. Questo per dire che si tratta di biografie, come le nostre. Considerarle da estirpare è essere giusti?
2 Il concetto di giustizia non penso possa essere univoco.
3 Il modello non sfugge ad essere anche il risultato di ciò che razionalmente consideriamo possibile. Se risultato è, esso rappresenta le forze, le volontà che hanno giocato la partita, incluso la corruzione dell’arbitro.
4 A mio parere non è la religione ma l’interpretazione della religione che può essere fondamentalista. L’idea fondamentalista ha una sua genesi, esigenza. Essa rappresenta alcune identità che in essa vedono realizzare se stesse. Questo per dire che si tratta di biografie, come le nostre. Considerarle da estirpare è essere giusti?
5 http://www.victoryproject.net/upload/articoli/416873935.pdf
6 L’abbondanza poi opulenza come farmaco oppiaceo. Il comfort crescente come logico scopo. La pervasività della comunicazione come diversivo da esigenze profonde. L’edonismo come consacrazione dei piccoli di essere come i grandi. Dei borghesi come i nobili.
7 Il futuro migliore è oggi - previo pilotazioni strumentali - corrispondente ad una maggiore abbondanza.
8 Questo punto è interessante. La consapevolezza è materia intellettuale se non ha il sentimento idoneo affinché si trasformi in esigenza, ovvero affinché ci trasformi da pensatori ad attori. Da fermi a motori. La volontà non esiste. Essa è solo l’alchemico prodotto finale di un’esigenza insuperabile ed inaquietabile. Diversamente resteremo in ambito intellettuale. Anche questo stazionare ha la sua biografia - e noi la rappresentiamo -. Essa ha origine nell’elezione della dimensione razionale a valore assoluto. La cosa ha comportato che tutta una serie di umanità che ci compongono, sono state dimenticate, tralasciate, mortificate. Quel mondo che vogliamo aggiornare, è stato creato anche da noi.
6 L’abbondanza poi opulenza come farmaco oppiaceo. Il comfort crescente come logico scopo. La pervasività della comunicazione come diversivo da esigenze profonde. L’edonismo come consacrazione dei piccoli di essere come i grandi. Dei borghesi come i nobili.
7 Il futuro migliore è oggi - previo pilotazioni strumentali - corrispondente ad una maggiore abbondanza.
8 Questo punto è interessante. La consapevolezza è materia intellettuale se non ha il sentimento idoneo affinché si trasformi in esigenza, ovvero affinché ci trasformi da pensatori ad attori. Da fermi a motori. La volontà non esiste. Essa è solo l’alchemico prodotto finale di un’esigenza insuperabile ed inaquietabile. Diversamente resteremo in ambito intellettuale. Anche questo stazionare ha la sua biografia - e noi la rappresentiamo -. Essa ha origine nell’elezione della dimensione razionale a valore assoluto. La cosa ha comportato che tutta una serie di umanità che ci compongono, sono state dimenticate, tralasciate, mortificate. Quel mondo che vogliamo aggiornare, è stato creato anche da noi.
Nota lm:
L’esperienza intellettuale sta nell’ambito della consapevolezza. Quella operativa ha necessità di sentimento. diversamente non è. Il principio vale tanto socialmente quanto individualmente.
I due piani di esistenza sono riferibili a due “io” differenti. Entrambi sentono vivere se stessi nell’esperienza. Uno perciò tende ad essere soddisfatto da quella intellettuale, consapevolezza. L’altro da quella operativa, azione. Entrambi rispettano e si muovono solo secondo sentimento corrispondente, diversamente si tratta automi indottrinati e governati.
Una percentuale di tutto, permette al sistema di mantenere la vita in quanto ogni parte è obbligata al movimento. tutti i movimenti tendono dunque a produrre un equilibrio dinamico, il più opportuno a ridurre le vulnerabilità tipiche di quello statico. In questi termini si realizza la natura. Essa non corrisponde all’affermazione di una sola parte. Essa è composta di parti legittime. Essa sopraffà non per progetto ma solo per sopravvivenza. Tutto il resto è ratione.
L’esperienza intellettuale sta nell’ambito della consapevolezza. Quella operativa ha necessità di sentimento. diversamente non è. Il principio vale tanto socialmente quanto individualmente.
I due piani di esistenza sono riferibili a due “io” differenti. Entrambi sentono vivere se stessi nell’esperienza. Uno perciò tende ad essere soddisfatto da quella intellettuale, consapevolezza. L’altro da quella operativa, azione. Entrambi rispettano e si muovono solo secondo sentimento corrispondente, diversamente si tratta automi indottrinati e governati.
Una percentuale di tutto, permette al sistema di mantenere la vita in quanto ogni parte è obbligata al movimento. tutti i movimenti tendono dunque a produrre un equilibrio dinamico, il più opportuno a ridurre le vulnerabilità tipiche di quello statico. In questi termini si realizza la natura. Essa non corrisponde all’affermazione di una sola parte. Essa è composta di parti legittime. Essa sopraffà non per progetto ma solo per sopravvivenza. Tutto il resto è ratione.
Il capitalismo, una malattia
di Simone Boscali
Esiste almeno un tipo di resistenza fortemente radicato nell’animo umano che continua ad essere di difficile comprensione a dispetto di ogni esercizio di umiltà da parte di chi è riuscito a scuotere almeno in parte la propria coscienza: la resistenza al cambiamento di rotta in un momento in cui il cammino ci porta inevitabilmente verso uno strapiombo.
Per secoli le varie civiltà umane che si sono succedute anche qui in Europa hanno avuto una visione cosidetta “futurocentrica”. Mettere il futuro al centro della propria riflessione significa non tanto distrarsi rispetto al presente, quanto avere la capacità prima di tutto di immaginare e poi di progettare un futuro migliore a fronte di un presente ingiusto.
Dato che spesso, ahinoi, il presente è stato ricco di ingiustizie1 nel corso della storia umana, la visione futurocentrica ha sempre permesso all’uomo di elaborare risposte alternative al presente e di metterle in pratica, ora attraverso un cambiamento culturale, ora con una rivoluzione violenta, ma sempre riproducendo in qualche modo la concezione triadica della storia di Hegel, tesi-antitesi-sintesi.
E’ in questa tensione generale reiterata cocciutamente per secoli che è maturata la saggenza popolare secondo cui “la speranza è l’ultima a morire”. Per quanto il mondo potesse essere brutto e iniquo, esso era pur sempre il prodotto dell’uomo e l’uomo stesso aveva quindi le potenzialità per cambiarlo con un atto di volontà e forza.
Questo ha portato a un flusso di eventi storico vivace, nel bene e nel male, ma sicuramente a grandi conquiste politiche e civili oltre ad aver dato nutrimento a uno spirito umano naturalmente indomito, essendo la giustizia2, a dispetto di una vile e fuorviante propaganda moderna, uno dei fini cui l’essere umano ambisce.
La questione è radicalmente mutata negli ultimissimi decenni con l’invasione da parte del sistema capitalista di ogni spazio della nostra esistenza che non fosse solo economico. Il capitalismo si è fatto politica, cultura (parola grossa...), religione e filosofia. Proprio atttraverso la filosofia del postmodernismo è stata sentenziata la cosidetta “fine della storia”, salutando il mondo attuale, il “migliore dei mondi possibile”, come l’ultimo quanto a modello3 di esistenza proposto. Il dogma del capitalismo, per bocca della filosofia postmoderna, è che dopo di esso non ci può essere nient’altro, ossia ancora lui stesso.
Idealmente siamo di fronte a un duplice omicidio in quanto la fine della storia ha ucciso sia l’immaginario umano che la sua potenzialità ideologica di elaborare nuovi sistemi in senso tecnico e non solo ideale. Occorre a questo punto fare bene attenzione poiché il proclama postmoderno in sé non avrebbe alcuna efficacia. Il problema è che questo dogma, nel miglior stile di una religione4 fondamentalista, è stato inserito come sottofondo in ogni contesto spendibile con il pubblico. Dall’istruzione al mondo dei bambini, dalla pubblicità ai film e ai programmi tv, in ogni contesto si da per scontato che questo stato di cose non abbia mai a cambiare e questo non tanto attraverso una discussione su questo tema, ma proprio con l’assenza di ogni discussione seria, stante ad indicare che il problema non si pone. Come a dire che se la malattia non esiste, non serve farvi una ricerca scientifica.
Il risultato facilemente riscontrabile è che l’uomo è oggi incapace di concepire anche solo lontanamente un’alternativa. Il sistema può peggiorare nelle proprie storture, può diventare sempre più iniquo e insoppor-tabile, ma in ultima battuta si è fatto incontestabile. Se nei decenni passati vi era ancora almeno la possibilità di arginare le singole ingiustizie tramite battaglie di settore condotte per esempio dai sindacati, oggi anche queste sono divenute quanto mai marginali per la sfiducia maturata verso movimenti che in fondo fanno parte del sistema stesso5.
In molti, troppi oggi pensano che la filosofia sia una disciplina di parole inutili, dimenticando che per secoli essa ha dato le basi alla creazione di sistemi nel loro complesso. Qual è allora la conseguenza immediata che gli insegnamenti del postmodernismo, arrivati per osmosi nella società, produce sul singolo? Ancora una volta è tutto molto evidente: il mal di vivere. Un mal di vivere poco compreso dalla massa e dall’individuo che lo porta dentro6.
L’essere umano ha evidentemente perso la luce, la gioia. Il domani, nell’immaginario collettivo, è sempre cupo e difficile, non si ha più quella speranza ultima a morire, e ora effettivamente morta.
Questo mal di vivere si mostra comunque nei modi, potremmo dire coi sintomi, che più conosciamo. La depressione, gli esaurimenti nervosi, la salute fisica che si fa mediamente più cagionevole e poi il rifugio – sempre e comunque individualista – negli svaghi che maggiormente forniscono una “rassicurante” astrazione
dalla realtà, come i cattivi programmi tv, certi generi musicali, la malnutrizione, il consumo di alcoolici e di droghe (magari non propriamente dette).
Tutto ciò accade perché, impossibilitato (non senza una propria responsabilità, si badi bene) a sperare in un futuro migliore7, l’essere umano è diventato incapace di esprimere costruttivamente la propria angoscia e il proprio disagio, situazione che lo obbliga a incanalarli sterilmente proprio in quelle false consolazioni che il sistema ha progettato per lui o, peggio, verso l’autodistruzione individuale, premessa necessaria per quella collettiva.
Esiste però una speranza non ancora morta, poiché è d’obbligo per noi rimanere in piedi. A dispetto della generale arrendevolezza che l’umanità ha sinora dimostrato di fronte ai dettami filosofici del capitalismo, resta ancora possibile rifiutarli. Come accennato, sino ad oggi all’uomo è sembrato sfuggire che il sistema è il prodotto di un puro atto di volontà e che può quindi essere sconfitto da un atto di volontà contraria8.
Occorre non demordere su questa consapevolezza e insistere nella proposta di alternative da parte di chi ancora non è cascato nela trappola per sbloccare l’impasse.
Il problema non è che il postmodernismo ha affermato che la storia è finita, il problema è averci creduto: ma a fronte degli effetti nefasti della menzogna e della sincerità che accompagna invece il nostro lavoro, la scelta di campo del genere umano alla fine non potrà che essere una scelta di vita.
di Simone Boscali
Esiste almeno un tipo di resistenza fortemente radicato nell’animo umano che continua ad essere di difficile comprensione a dispetto di ogni esercizio di umiltà da parte di chi è riuscito a scuotere almeno in parte la propria coscienza: la resistenza al cambiamento di rotta in un momento in cui il cammino ci porta inevitabilmente verso uno strapiombo.
Per secoli le varie civiltà umane che si sono succedute anche qui in Europa hanno avuto una visione cosidetta “futurocentrica”. Mettere il futuro al centro della propria riflessione significa non tanto distrarsi rispetto al presente, quanto avere la capacità prima di tutto di immaginare e poi di progettare un futuro migliore a fronte di un presente ingiusto.
Dato che spesso, ahinoi, il presente è stato ricco di ingiustizie1 nel corso della storia umana, la visione futurocentrica ha sempre permesso all’uomo di elaborare risposte alternative al presente e di metterle in pratica, ora attraverso un cambiamento culturale, ora con una rivoluzione violenta, ma sempre riproducendo in qualche modo la concezione triadica della storia di Hegel, tesi-antitesi-sintesi.
E’ in questa tensione generale reiterata cocciutamente per secoli che è maturata la saggenza popolare secondo cui “la speranza è l’ultima a morire”. Per quanto il mondo potesse essere brutto e iniquo, esso era pur sempre il prodotto dell’uomo e l’uomo stesso aveva quindi le potenzialità per cambiarlo con un atto di volontà e forza.
Questo ha portato a un flusso di eventi storico vivace, nel bene e nel male, ma sicuramente a grandi conquiste politiche e civili oltre ad aver dato nutrimento a uno spirito umano naturalmente indomito, essendo la giustizia2, a dispetto di una vile e fuorviante propaganda moderna, uno dei fini cui l’essere umano ambisce.
La questione è radicalmente mutata negli ultimissimi decenni con l’invasione da parte del sistema capitalista di ogni spazio della nostra esistenza che non fosse solo economico. Il capitalismo si è fatto politica, cultura (parola grossa...), religione e filosofia. Proprio atttraverso la filosofia del postmodernismo è stata sentenziata la cosidetta “fine della storia”, salutando il mondo attuale, il “migliore dei mondi possibile”, come l’ultimo quanto a modello3 di esistenza proposto. Il dogma del capitalismo, per bocca della filosofia postmoderna, è che dopo di esso non ci può essere nient’altro, ossia ancora lui stesso.
Idealmente siamo di fronte a un duplice omicidio in quanto la fine della storia ha ucciso sia l’immaginario umano che la sua potenzialità ideologica di elaborare nuovi sistemi in senso tecnico e non solo ideale. Occorre a questo punto fare bene attenzione poiché il proclama postmoderno in sé non avrebbe alcuna efficacia. Il problema è che questo dogma, nel miglior stile di una religione4 fondamentalista, è stato inserito come sottofondo in ogni contesto spendibile con il pubblico. Dall’istruzione al mondo dei bambini, dalla pubblicità ai film e ai programmi tv, in ogni contesto si da per scontato che questo stato di cose non abbia mai a cambiare e questo non tanto attraverso una discussione su questo tema, ma proprio con l’assenza di ogni discussione seria, stante ad indicare che il problema non si pone. Come a dire che se la malattia non esiste, non serve farvi una ricerca scientifica.
Il risultato facilemente riscontrabile è che l’uomo è oggi incapace di concepire anche solo lontanamente un’alternativa. Il sistema può peggiorare nelle proprie storture, può diventare sempre più iniquo e insoppor-tabile, ma in ultima battuta si è fatto incontestabile. Se nei decenni passati vi era ancora almeno la possibilità di arginare le singole ingiustizie tramite battaglie di settore condotte per esempio dai sindacati, oggi anche queste sono divenute quanto mai marginali per la sfiducia maturata verso movimenti che in fondo fanno parte del sistema stesso5.
In molti, troppi oggi pensano che la filosofia sia una disciplina di parole inutili, dimenticando che per secoli essa ha dato le basi alla creazione di sistemi nel loro complesso. Qual è allora la conseguenza immediata che gli insegnamenti del postmodernismo, arrivati per osmosi nella società, produce sul singolo? Ancora una volta è tutto molto evidente: il mal di vivere. Un mal di vivere poco compreso dalla massa e dall’individuo che lo porta dentro6.
L’essere umano ha evidentemente perso la luce, la gioia. Il domani, nell’immaginario collettivo, è sempre cupo e difficile, non si ha più quella speranza ultima a morire, e ora effettivamente morta.
Questo mal di vivere si mostra comunque nei modi, potremmo dire coi sintomi, che più conosciamo. La depressione, gli esaurimenti nervosi, la salute fisica che si fa mediamente più cagionevole e poi il rifugio – sempre e comunque individualista – negli svaghi che maggiormente forniscono una “rassicurante” astrazione
dalla realtà, come i cattivi programmi tv, certi generi musicali, la malnutrizione, il consumo di alcoolici e di droghe (magari non propriamente dette).
Tutto ciò accade perché, impossibilitato (non senza una propria responsabilità, si badi bene) a sperare in un futuro migliore7, l’essere umano è diventato incapace di esprimere costruttivamente la propria angoscia e il proprio disagio, situazione che lo obbliga a incanalarli sterilmente proprio in quelle false consolazioni che il sistema ha progettato per lui o, peggio, verso l’autodistruzione individuale, premessa necessaria per quella collettiva.
Esiste però una speranza non ancora morta, poiché è d’obbligo per noi rimanere in piedi. A dispetto della generale arrendevolezza che l’umanità ha sinora dimostrato di fronte ai dettami filosofici del capitalismo, resta ancora possibile rifiutarli. Come accennato, sino ad oggi all’uomo è sembrato sfuggire che il sistema è il prodotto di un puro atto di volontà e che può quindi essere sconfitto da un atto di volontà contraria8.
Occorre non demordere su questa consapevolezza e insistere nella proposta di alternative da parte di chi ancora non è cascato nela trappola per sbloccare l’impasse.
Il problema non è che il postmodernismo ha affermato che la storia è finita, il problema è averci creduto: ma a fronte degli effetti nefasti della menzogna e della sincerità che accompagna invece il nostro lavoro, la scelta di campo del genere umano alla fine non potrà che essere una scelta di vita.
1 commento:
Ciò che si è smarrito con il neocapitalismo è "la capacità di calcolo sociale", cioè il Logos, secondo l'interpretazione che ne ha dato il filosofo Costanzo Preve. Indispensabile qualità, questa, che nasce dalla razionalità calcolante, per trovare il "giusto mezzo", ossia il Metron degli Elleni, evitando di cadere nel pozzo senza fondo della dismisura neocapitalistica. In tal senso, il (nuovo)capitalismo del terzo millennio può esser visto come una malattia, anzi, una sorta di minorazione collettiva che impedisce il calcolo razionale e sociale (mi richiamo sempre a Costanzo) e la ricerca del "giusto mezzo".
Saluti
Eugenio Orso
http://pauperclass.myblog.it/
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