lunedì 2 marzo 2015

Centri commerciali, i templi del Nulla



Visitare un centro commerciale è un'esperienza che permette di prendere atto di molte delle decadenze e delle contraddizioni della società occidentale.
E' infatti sin troppo evidente come, soprattutto nei giorni festivi, questi veri e propri villaggi della spesa siano diventati luoghi (campi?...) di concentramento di una massa di persone del tutto sconnesse tra loro, incapaci di socializzare, e per le quali lo spendere del denaro non costituisce più un mezzo per ottenere un'esistenza decorosa, ma il fine stesso dell'esistenza.

L'impatto visivo propone già qualcosa di inaspettato e di incomprensibile per chi non è abituato a frequentare questi gulag dello spirito in cui gli utenti si autodeportano per andare incontro al proprio, graduale sterminio interiore.
L'abbigliamento dei frequentatori non è simile a quello di coloro che passeggiano all'aperto per strada o per i negozi del centro cittadino. Indipendentemente dalla moda di riferimento (vi si incontra di tutto, dal dandy al punk, dallo sfattone alla femme fatale) i dettagli sono sempre grotteschi, esagerati, sproporzionati rispetto al tutto e privi di qualsiasi armonia e ricerca del bello. Si passa quindi dai pantaloni troppo calati a quelli troppo corti, dalle giacche letteralmente strizzate e poi usate a mo' di sciarpa, ai cappelloni sia per uomini che per donne, le ragazze vestite non tanto come se dovessero comprare ma come se volessero vendersi, modi di abbigliarsi e conciarsi di un sesso usati indifferentemente dall'altro, famiglie vestite meglio del sottoscritto il giorno del proprio matrimonio solo per fare la scorta di alimentari, immigrati nordafricani griffati più degli autoctoni e le rispettive mogli che sfoggiano un velo all'ultima moda dalla chiara contaminazione occidentale negli stili e nei tessuti, italiani che al contrario fanno propri in modo grottesco e folkloristico i modi di abbigliarsi stranieri, e via dicendo.
Accanto a queste storture sorprende l'elevatissimo numero di cani, talvolta più di uno per ogni padrone e portati a spasso in un carrello della spesa appositamente preso, tutti pulitissimi, col pelo pettinato e lucido, con collari e pettorine in bella mostra come abiti firmati. Viene naturalmente da chiedersi se un proprietario di cani che si sente in obbligo di portare la propria creatura in giro il sabato o la domenica in un centro commerciale sia davvero il “padrone” o se, alla luce della mancanza di libertà di movimento mostrata, non sia piuttosto sottomesso all'animale.

Queste assurdità, questi ribaltamenti della logica e della Natura, sono però legati da un inquietante filo conduttore che le indirizza tutte verso un'unica direzione: la funzionalità al consumo senza confini.
L'antico uomo comunitario vedeva soddisfatti i propri bisogni interiori nell'interazione coi membri delle varie comunità di appartenenza - famiglia, località, nazione, religione, etc – e poteva limitare i consumi materiali ai soli bisogni oggettivi relegandoli quindi a una dimensione di finitezza. Le tensioni  verso l'infinito erano invece soddisfatte non solo coi legami comunitari di cui si è già detto ma anche con il proprio, personale cammino spirituale.
Oggi invece la spiritualità e le dimensioni comunitarie sono state distrutte, per cui l'uomo, confinato in un campo di concentramento materialistico, è condannato a cercare in questi angusti limiti la soddisfazione impossibile a bisogni che ormai sconfinano nell'illimitato. In buona sostanza si cerca nel consumo materiale la soddisfazione alla propria tensione all'infinito ed è ovvio che questa non potrà mai essere soddisfatta dal mero consumo.
Per mantenere l'illusione diventa quindi necessario per il sistema che ognuno esca da posizioni ancestralmente riconosciute per continuare a consumare sempre di più, nella vana speranza che il “prossimo acquisto” possa essere quello definitivo, quello che una volta e per sempre porterà pace al consumatore liberandolo da ogni ulteriore volontà di spesa.
Ed ecco quindi che, quando si è finito di consumare ciò che inerisce il proprio sesso, si inizia col consumare quanto inerisce il sesso opposto (maschi e femmine sempre più sovrapponibili nelle mode e nei caratteri)
Quando si è terminato di consumare ciò che è tipico della propria nazionalità, si comincia con quello delle nazionalità altrui (occidentali e immigrati).
E, all'estremo, quando non c'è più nulla da consumare nel campo della stessa specie vivente cui si appartiene, quella umana, si consuma ciò che riguarda un altra specie (la sovrabbondanza di cani con padroni totalmente sottomessi ai loro “bisogni”).

L'inversione di ruolo definitiva comprende tutte le precedenti e ne costituisce l'inevitabile epilogo. Non è più l'essere umano che consuma merci, ma ne è consumato. Non usa ciò che compra, ne è usato come semplice strumento che permette alla merce di esistere per un breve ciclo vitale funzionale al sistema capitalista e il denaro, sterco del demonio, diventa il nuovo dio.

I centri commerciali sono, nella funzione loro assegnata, i nuovi templi per l'inconsapevole adorazione del denaro e della nuova religione ufficiale dell'umanità: il culto del Nulla.


2 commenti:

ekarrrt ha detto...

Bello. Bello.
Aggiungerei una cosa a mio parere nodale.

Affinché si alzi il rischio di modificare la rotta dell'attuale cultura, è opportuno ritenere noi stessi responsabili di dove stiamo andando, più che - come per la stessa cultura siamo indotti a fare - considerarsi fuori e colpevolizzare altri.

L'assunzione di responsabilità di Tutto, non solo di quanto riteniamo sia di nostra competenza, è quindi il punto.

Senza quell'assunzione alimenteremmo la logica dello scontro, della separazione, dell'analisi, della convinzione che la dialettica razionalistica sia cruciale.

Perderemmo lo spirito che ci unisce, la possibilità di evolvere attraverso la comunicazione profonda, empatica e così la sua implicita potenza di realizzare un paradigma alternativo all'attuale.

http://www.victoryproject.net/articolo.php?id=542

grazie per l'ascolto
lorenzo merlo

Simone ha detto...

Grazie a te Lorenzo. In effetti hai detto una cosa saggia che non solo condivido ma che in realtà vale per tutto. A dire il vero quotidianamente mi ritrovo io stesso a discutere anche animatamente con altre persone sull'assunzione di responsaiblità. Ho personalmente imparato a non dare mai ad altri/altro la colpa di quello che non va. La colpa è sempre MIA, magari in misura percentuale, ma comunque mia, o meglio, ciò che accade è sempre dovuto alla somma delle responsabilità delle singole persone tra cui io, te e il nostro dirimpettaio.
Se nei centri commerciali vi sono quei morti in piedi pertanto non ha senso accusarli di nulla. Sono io, magari con altri, che non faccio abbastanza per convincerli a cambiare e aprire gli occhi.
Il motivo per cui non ho aggiunto questo argomento all'articolo è che esso merita decisamente una trattazione a parte. In proposito ho realizzato uno scritto "Libertà delegata", capitolo di un libro che sto scrivendo.